sabato 1 marzo 2008

Ossessione





Bruciavo ai giorni d’estate intontito dal sole, per l’ostinazione di evitare tutto ciò che fosse un riparo. E le urla di mia madre mi inseguivano, le mosche se ne stavano appiccicate sulla pelle, cocciute si bevevano il mio sangue. Credo che in quei giorni fosse un sangue nero, scuro, di certo denso come il petrolio. Che sulla densità del petrolio non saprei dire nemmeno dieci secondi, e adesso che ci penso, forse, il petrolio non è nemmeno denso, ma di sicuro lo era il mio sangue. Ero una bestiola sporca, con un paio di ciabatte della Fass e dei pantaloncini rossi con una fettuccia bianca lungo gli orli; e quella era la divisa della mia estate, che poi, a dirla tutta, le ciabatte nemmeno le portavo tanto. Le lasciavo in un angolo della casa, magari all’ombra, o forse sparse, una in giardino e l’altra chissà dove.
In quei giorni la terra aveva sete, tanta sete. Il sole se ne stava lì in alto, silenzioso, e io lo guardavo per un secondo, come si guarda una persona degna di rispetto. Come quelle persone che se le fissi anche un solo istante di più, poi, non lo vai a raccontare in giro. C’erano spaccature e ferite profonde nella terra, ce n’erano dappertutto. Era uguale alla terra africana, la stessa che vedevo nei documentari, cosparsa di nugoli di bambini scuri con le teste grosse e le pance gonfie. E quei bambini, io non lo capivo perchè, si lasciavano succhiare dalle mosche; si lasciavano succhiare tutto, non solo il sangue. Le mosche le avevano sugli occhi, dentro alla bocca, in fondo alle orecchie. Ed erano mosche più crudeli delle nostre, che, se volevano, potevano anche farti dormire per sempre.
Nell’aria infuocata del pomeriggio portavo la mano alla fronte per farmi riparo e guardare l’orizzonte. E l’orizzonte brulicava di una luce incerta, pari pari a quella del deserto, quella maligna che genera i miraggi. Voltavo la testa a destra e a sinistra come fanno le vedette e cercavo il trattore di mio nonno. Lo vedevo là in fondo, vicino al rivale del fiume che scavava fossati. Aveva urgenza di dissetare le piante a cui voleva bene, quelle per cui lavorava da una vita. Quei fossati erano vene d’acqua, vene che servivano per nutrire gli alberi da cui io raccoglievo le pesche, le prugne, le ciliegie con le quali facevo merenda o che semplicemente lanciavo lontano, nell’orizzonte. Ed erano frutti dolci, con la buccia spessa e lucente; e adesso che ci penso credo di non aver mai ringraziato mio nonno per quei frutti.
Formavo, con mio cugino e mia sorella, una banda crudele e attraversando i campi intorno alla casa assomigliavamo a donnole dalla pelle scura; il nostro continuo movimento ci ricopriva di un sottile velo di sudore, e al sole eravamo lucidi e ingrassati come la carrozzeria di una macchina. E allora scivolavamo nell’acqua dei fossati come coccodrilli, in silenzio, per non farci scoprire da mio nonno; ci ricoprivamo di fango e aspettavamo seccasse per vedere quella nostra seconda pelle crepare. E con il fango fabbricavamo palle, più grosse di un pugno, da tirare contro le lucertole che si abbronzavano tra le pietre della casa vecchia, quella che i nostri nonni avevano abitato molti anni prima. E di lucertole ne colpivamo eccome, a volte restavano completamente intrappolate nel fango, altre volte lasciavano una coda mozzata tra le pietre.
E poi un giorno sono rimasto solo. Ho cercato mio cugino ma era partito per le terme, e mia sorella lo sapevo che non c’era. L’avevo vista andare via in bicicletta con una sua amica e nel cestino della bici avevano infilato qualcosa. Io mi ero steso sulle piastrelle fredde del corridoio a leggere un libro. Però avevo caldo, sudavo proprio; ed ero annoiato. Mia madre era in sala da pranzo, ascoltava una canzone dei Matia Bazar e mi diceva di non restare steso per terra. Sono uscito, giusto per fare qualcosa. E davanti alla finestra della sala e della cucina c’era una vasca di pietra scura e ricoperta di muschio. L’avevano riempita di acqua limpida e senza esitare mi misi a sedere sul bordo, immergendo le gambe fino al ginocchio. Tenevo le gambe a mollo per sentire il fresco, scalciando l’acqua al ritmo dei Matia Bazar.
Sentii spegnere la radio e accendere la tivù. Vedevo dietro la zanzariera la luce azzurra dello schermo e la sagoma scura di mia madre che si faceva le unghie.
“Che film danno?”, le domandai.
“Ossessione, di Visconti”
“E’ bello?”
“Sì, è bello, stai buonino...”
Allora salii in piedi sul bordo della vasca issandomi sul davanzale, sfondando quasi la zanzariera, e lì mi rannicchiai per più di due ore. Massimo Girotti in canottiera mi stava simpatico e quel film mi sembrava la cosa più bella che avessi mai visto. Non capivo tutto tutto, e continuavo a far domande a mia madre:
“Come si chiama lui?”
“Gino, lo sai pure...”
“Mamma, come si chiama il ciccione?”
“Bragana, fammi sentire il film adesso...”.
Finì quasi a sera, e non faceva più così caldo. Sul davanzale, insieme a me, era salito anche il gatto e, prima di scendere, lo scalciai di sotto.
Mi incamminai lungo un sentiero, verso il canale da cui mio nonno pompava l’acqua per riempire i fossati. Ero semplicemente felice. Volevo bene a mia madre, a mio nonno, mi piaceva camminare scalzo nella polvere. E da quel giorno amavo anche il cinema.

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p.s.
In mancanza d'altro ho riciclato questo...lo so che è troppo lirico, ma questo ho...