lunedì 29 settembre 2008

Mia sorella ha le lentiggini

Io ho una sorella che ha le lentiggini; ce le ha fin da piccola le lentiggini. Di sorella ho solo lei. Sono contento di avere solo lei, perchè mi fa anche per tutte quelle sorelle che avrei potuto avere ma non ho avuto. La migliore amica di mia sorella ha le lentiggini. Ne ha molte di più di mia sorella. Da piccola sembrava una bambina di Dublino. Adesso che sono cresciute non si vogliono più tanto bene, solo un bene normale si vogliono. Si sono sposate tutte e due. Quella quasi di Dublino ha avuto anche un bambino, solo che non lo so se si confonde con un bambino di Belfast perchè io non l’ho mai visto. Mia sorella non dice mai le cose alle spalle, preferisce guardarti negli occhi quando deve dirti una cosa. Una volta doveva dire una cosa al sindaco di Ravenna, e siccome lo ha visto in una piazza di Ravenna è andata lì e gli ha detto tutte quelle cose che doveva dirgli; stava lì, lo guardava in faccia e gli diceva tutte le cose che gli si erano accumulate dentro. Il sindaco di Ravenna si è vergognato come un ladro. A star lì a discutere con mia sorella c’è sempre da vergognarsi come i ladri. Non so, ha questa capacità di dire delle cose oneste e le cose oneste spesso hanno un odore di verità. Un’altra volta, quando io avevo tre anni e mia sorella uno, era settembre ed eravamo in montagna; lei aveva la febbre ed io no, stavo bene insomma. Mio babbo e mia mamma mi avevano lasciato nell’appartamento a vegliare mia sorella. Mi avevano dato un giornalino per guardare le figure solo che io non riuscivo a guardarlo perchè avevo paura che mia sorella morisse, e allora anzichè il giornalino guardavo lei. Dal balcone del nostro appartamento si vedeva il lago di Misurina.
Quando è andata a Genova a urlare che nessuno fa gli interessi della povera gente Mareblu e Romolino me l’hanno portata a casa così com’era partita, e allora io gli ho detto grazie; grazie per avermela portata a casa tutta intera, uguale a com’era partita.
Mia sorella mi tratta come una gatta tratta il proprio gattino. Quindi se avete qualcosa da dire con me ve la dovete vedere anche con lei, per forza. Anche se sono grande lei ha questo senso di protezione nei miei confronti Ha sempre questa preoccupazione che io stia bene, che sia abbastanza felice. Non glielo dico mai ma anch’io ho sempre questa preoccupazione che lei stia bene, che sia felice.



Adesso che ti ho messo con le spalle al muro vediamo come te la cavi. E comunque sei l'unica con cui farei quella cosa lì.

martedì 15 luglio 2008

Al di sopra delle città




Io una cosa così non potevo crederci. Nemmeno quand’ero un bambino e nemmeno quand’ero un ragazzino m’è successa una cosa così. E’ una cosa così personale e così mia che non ve la posso raccontare. Solo i confini di questa cosa posso farvi vedere. E lo faccio per voi, che nel centro di questa cosa c’è tipo il nucleo del sole e a guardare il nucleo del sole si diventa ciechi, per sempre.

Sarà stato sabato 12 luglio, non tanto tempo fa. Me ne andavo tranquillo per queste strade di collina che poi diventano strade di montagna. E all’improvviso le querce son diventate faggi. Sono arrivato dove nasce un fiume, quindi in alto. Poi sono andato anche più su, fino ad un prato dove han costruito l’hotel Paradiso. E qui ho toccato il nucleo del sole senza bruciarmi.

Nell’hotel Paradiso c’erano solo vecchietti, una ragazza che leggeva un libro e delle famiglie di roma che davano degli schiaffi ai propri bambini. E poi c’erano Franco e l’Ernesta che preparano la vera piadina romagnola. Dai faggi cadevano delle cimici nere, che se le schiacciavi morivi dal puzzo. Credo mi abbiano avvelenato il sangue quelle cimici. Da sabato 12 luglio non riesco più a dormire.

E poi ho guardato in alto e ho visto il sole tra i faggi e quindi in basso e ho visto che mi trovavo al di sopra delle città. E mi è venuto da piangere.

mercoledì 9 luglio 2008

Le tartarughe di mare

Conosco delle persone che se le guardi dentro non finiscono lì, ma hanno un buco profondo. Tutte le altre finiscono lì, ma loro no. Hanno questo buco profondo.
E’ un buco che non le fa dormire.
Le altre persone sono dei pesci, quelle con il buco profondo sono tartarughe di mare. Nuotano a lungo in profondità ma prima o poi devono tornare a galla, per respirare.
Io amo di più le persone che se le guardi dentro hanno un buco profondo. Alzano il dito per indicarmi cose che non avevo mai visto. E per questo le ringrazierò sempre.

Ci sono persone che se le guardi dentro non finiscono mai.

mercoledì 2 luglio 2008

Daje Trecciolì Daje


Volevo scrivere un post sul fatto che oggi c’è il palio di Siena ma mi è venuta una fitta di caldo alla testa ed ora ho definitivamente la testa ciondola. Allora ho cominciato a dire delle cose che mi venivano in mente dentro alla macchina fotografica. Pensavo di avere una bella voce e invece no. Ho una brutta voce.
E’ di un brutto la mia voce, diventano brutte anche le idee belle con quella voce lì. Tutte queste persone che mi dicevano te hai una bella voce, te dovresti fare una trasmissione radio, di quelle della notte, di quelle dove mettono i dj con la voce soffusa. Io poi che ci credevo, che mi son fatto una cultura di dischi jazz in vista di questa futura carriera radiofonica.
Avevo pensato anche al titolo della trasmissione, per dire.
Kaba in the night, un titolo così, per dire. Un pò magniloquente, ma chissenefrega.
Dal lunedì al venerdì, dalle undici all’una di notte. Tutto il palinsesto avevo pensato. Invece adesso sono rimasto orfano dell’idea della mia voce. Avevamo pensato di aprire una web-radio fatta di blogger. Ma adesso ho perso l’entusiasmo. Potrei collocarmi dall’1 alle 3 di notte che tanto lì non mi ascolterebbe nessuno. Tanto.
Tutti questi pistolotti che mi ero fatto su Django Reinhardt, su Keith Jarret, sulle vite maledette di questa gente del jazz...adesso cosa me ne faccio di questi pistolotti? Li butto nel cestino?
Mi è presa un’amarezza quando ho sentito la mia voce, ma un’amarezza...
Son qui dentro al sito del comune di Siena, dove l’han messo il sorteggio dei cavalli delle contrade?
Eccolo...mio cugino quest’anno deve star muto. L’istrice ha ingaggiato Trecciolino, e con Trecciolino o vittoria o morte. Quest’anno compie quarant’anni Trecciolino. Un signor fantino questo Trecciolino qui. E’ un duro, di quelli che piacciono alle donne. E’ nato nella banlieu di Siena; se è il caso di dare una frustata agli altri fantini gliela dà e poche storie. Una vergata non ha mai ammazzato nessuno, via.
All’istrice è toccato in sorte Già del Menhir, un castrone di 6 anni. Non so nemmeno che cos’è un castrone, per dire. Mi dà l’idea di un cavallo con cui si fanno le braciole, il castrone. Speriamo bene.
Magari se non riesce a battere gli altri cavalli in velocità potrebbe prenderli a spallate.
Al Montone è toccato in sorte Iolao, un castrone di 5 anni. Stà a posto pure mio cugino. Quest’anno il Montone non aveva voglia di spendere soldi nel fantino; hanno preso tal Girolamo, un esordiente. Trecciolino se lo mangia.

lunedì 23 giugno 2008

Bhèm bambini...

Bhèm bambini,
ma io in un giorno così pieno di caldo, in un giorno così domenicale, dall’aria così festiva, con delle gran farfalline del mese di giugno che piroettano nell’aria...no, ma io dico, in un giorno così bello, che ho appena finito di vedere le macchine che corrono e poi le moto che corrono...adesso, in quest’ora qui, che va dalle cinque al tramonto, con questa luce piena di umidità...
bhèm bambini,
ma io cosa faccio? Ah, io lo so cosa faccio...faccio una cosa che in due ore mi libero, una bella cosa inventata sul momento, rapida, facile da farsi che poi stasera c’è la partita...e si sa che tutti gli italiani guardano la partita, che adesso lo so che abbiam perso la partita ma prima non lo sapevo, son cose che capitano...peccato...sarà per un’altra volta. Allora niente, faccio che prendo su la mia bici nuova, una bella bici nuova color 'celeste bianchi', un bel colore che s’abbina a tutto...poi ci salgo in sella alla mia bici, una sella morbida, fatta bene, con tutti i crismi, che quando sto lì sulla mia bici mi pare d’essere in poltrona.
Bhèm bambini,
ma la bellezza delle strade di romagna alle cinque di una domenica pomeriggio, queste strade che si perdono nella campagna e poi nella collina e che si fanno sempre più piccole man mano che van su...di una bellezza peggiore del caldo afoso; ti toglie il fiato in un modo spietato, che nemmeno i caldi più cattivi riescono a fare. E tu stai lì a boccheggiare in questo mare di grano, con la tua bici color 'celeste bianchi', la tua borraccia color 'celeste bianchi'...
Stai lì, tranquillo e beato, in questa strada libera che non c’è nemmeno una macchina...ti guardi intorno, non c’è nessuno, gran grilli, gran cicale, ma di cristiani nemmeno uno. Che poi tutti gli altri cristiani sono al mare, a cercare il fresco, dicono loro. Tutta sta gente che viene giù da Bologna, da Modena, da queste città senza mare...un caos, un fitto, un rumore...tutti lì stesi, pigiati a pigliare il sole...uno stress, un’agitazione...
C’è anche il bagno dei surfisti, per dire. Che se tè sei un surfista emiliano-romagnolo vai lì in ‘sto bagno e non ti senti più solo. Non ti senti più un’anima persa. Ah, io me lo sono sempre chiesto cosa fanno i surfisti emiliano-romagnoli in questo mare che, quando butta bene, ha delle onde di venti centimetri. Allora mi vien da pensare che si racconteranno le loro avventure nei mari di tutto il mondo, poi, una volta stanchi di parlare, con le loro tavole sotto il braccio, il vento nei capelli e il sole sugli occhi...scenderanno sul bagnasciuga ad aspettare le onde grosse.
Solo che non vengono mai queste onde grosse, e loro stan lì, ad invecchiare, nell’attesa della Grande Onda. Un’ansia, un’agitazione per questa grande onda che non arriva...Questo bagno dei surfisti come il deserto dei tartari, un logoramento, un’attesa che non finisce mai...eh, ma non è mica possibile, che io quasi quasi spero che venga uno tsunami nell’adriatico, di mercoledì, magari, per regalare ai surfisti emiliano-romagnoli il loro mercoledì da leoni.
Bhèm bambini,
io adesso sono quasi arrivato alla fine del giro, sto guardando i giardini delle signore romagnole, tutti belli, ordinati, con delle statuine di gesso tutte bianche, candide...una bellezza questi giardini, un silenzio, un profumo. Ci sono qui dei signori che nel giardino han messo due scatoline di api, per dire, così la mattina hanno sempre il miele fresco. Una lungimiranza questi signori romagnoli, una parsimonia.
Queste belle case di campagna, di un bello vero, non di un bello restaurato...queste case meravigliose di un bello antico, non di un bello finto antico...con queste tavolate enormi, imbandite all’ombra di un pioppo, un pioppo enorme, frondoso, ombroso da matti, che sotto si sta di un bene, di un fresco...Madonna, sembra di stare sul set di un film di Fellini...che quasi quasi mi fermo. E il bello è che se mi fermo mi dan da bere, da mangiare, mi rifocillano...mi fan dormire all’ombra del pioppo, che poi da lì non mi viene più voglia di alzarmi.
Mi fermo giusto qui, in questo bel paesino all’ombra del rivale, questo paesino che dorme in questa domenica di giugno, con un nome così bello che si chiama il paesino di San Marco. Un bel paesino romagnolo col nome di un santo, un bel santo evangelista, che aveva anche tre amici, tre amici evangelisti anche loro. E in questo bel paesino dove ci passa il fiume, in questa domenica di giugno, io riempio la borraccia 'celeste bianchi' e mi sciacquo la faccia sudata. Una bellezza questa fontana, un luccichìo...sa di fontana antica...l’han messa qui in mezzo all’ombra...circondata dagli alberi, dalle piante...questa fontanina del paesino di San Marco che pare quasi una fonte battesimale, che ci si potrebbero anche battezzare i bambini, per dire. Sto di un bene qui. Un dispiacere, un peccato che non ci sia qui il Pascoli, che con la sua sensibilità, messo di fronte a questa calma domenicale di fine giugno, davanti a una fontanina così, con i piedi immersi in questa verzura profumata...chissà che poesia avrebbe tirato fuori il Pascoli. Io piango sempre quando leggo la cavallina storna, per dire. Ancora adesso, a questa età avanzata. Sarò di animo sensibile, sarà per via della bicicletta, di tutte queste immagini che mi scorrono davanti, boh, chi lo sa.
Bhèm bambini,
io adesso vi metto qui sotto la faccia di un ciclista romagnolo sofferente, che ha l’ansia e l’agitazione dei surfisti emiliano-romagnoli orfani del loro mercoledì da leoni. Tanto ormai ho visto anche la faccia di Baol...e insomma, un abbraccio a lui e uno per uno a tutti voi. Senza litigare, eh.





Che poi, a vederla qui, sembra di un intenso sta foto, di un ricercato...e, invece, è solo frutto di un grande male alla pancia. Davvero eh. Per dire...a volte...le cose. E allora tanto che son qui, un abbraccio lo darei ad una amica che ogni tanto ha male alla pancia, proprio come questo ciclista romagnolo nella foto. E quando il male alla pancia passa, quest’amica, fa delle foto bellissime con una macchina nuova bellissima.


Ma, senza che nessuno se ne abbia a male, l’abbraccio più grande è per la signorina H. La signorina H. è una signorina a cui non si può volere che bene. Ha dei problemi con le domeniche. Anche quelle di giugno.

sabato 1 marzo 2008

Ossessione





Bruciavo ai giorni d’estate intontito dal sole, per l’ostinazione di evitare tutto ciò che fosse un riparo. E le urla di mia madre mi inseguivano, le mosche se ne stavano appiccicate sulla pelle, cocciute si bevevano il mio sangue. Credo che in quei giorni fosse un sangue nero, scuro, di certo denso come il petrolio. Che sulla densità del petrolio non saprei dire nemmeno dieci secondi, e adesso che ci penso, forse, il petrolio non è nemmeno denso, ma di sicuro lo era il mio sangue. Ero una bestiola sporca, con un paio di ciabatte della Fass e dei pantaloncini rossi con una fettuccia bianca lungo gli orli; e quella era la divisa della mia estate, che poi, a dirla tutta, le ciabatte nemmeno le portavo tanto. Le lasciavo in un angolo della casa, magari all’ombra, o forse sparse, una in giardino e l’altra chissà dove.
In quei giorni la terra aveva sete, tanta sete. Il sole se ne stava lì in alto, silenzioso, e io lo guardavo per un secondo, come si guarda una persona degna di rispetto. Come quelle persone che se le fissi anche un solo istante di più, poi, non lo vai a raccontare in giro. C’erano spaccature e ferite profonde nella terra, ce n’erano dappertutto. Era uguale alla terra africana, la stessa che vedevo nei documentari, cosparsa di nugoli di bambini scuri con le teste grosse e le pance gonfie. E quei bambini, io non lo capivo perchè, si lasciavano succhiare dalle mosche; si lasciavano succhiare tutto, non solo il sangue. Le mosche le avevano sugli occhi, dentro alla bocca, in fondo alle orecchie. Ed erano mosche più crudeli delle nostre, che, se volevano, potevano anche farti dormire per sempre.
Nell’aria infuocata del pomeriggio portavo la mano alla fronte per farmi riparo e guardare l’orizzonte. E l’orizzonte brulicava di una luce incerta, pari pari a quella del deserto, quella maligna che genera i miraggi. Voltavo la testa a destra e a sinistra come fanno le vedette e cercavo il trattore di mio nonno. Lo vedevo là in fondo, vicino al rivale del fiume che scavava fossati. Aveva urgenza di dissetare le piante a cui voleva bene, quelle per cui lavorava da una vita. Quei fossati erano vene d’acqua, vene che servivano per nutrire gli alberi da cui io raccoglievo le pesche, le prugne, le ciliegie con le quali facevo merenda o che semplicemente lanciavo lontano, nell’orizzonte. Ed erano frutti dolci, con la buccia spessa e lucente; e adesso che ci penso credo di non aver mai ringraziato mio nonno per quei frutti.
Formavo, con mio cugino e mia sorella, una banda crudele e attraversando i campi intorno alla casa assomigliavamo a donnole dalla pelle scura; il nostro continuo movimento ci ricopriva di un sottile velo di sudore, e al sole eravamo lucidi e ingrassati come la carrozzeria di una macchina. E allora scivolavamo nell’acqua dei fossati come coccodrilli, in silenzio, per non farci scoprire da mio nonno; ci ricoprivamo di fango e aspettavamo seccasse per vedere quella nostra seconda pelle crepare. E con il fango fabbricavamo palle, più grosse di un pugno, da tirare contro le lucertole che si abbronzavano tra le pietre della casa vecchia, quella che i nostri nonni avevano abitato molti anni prima. E di lucertole ne colpivamo eccome, a volte restavano completamente intrappolate nel fango, altre volte lasciavano una coda mozzata tra le pietre.
E poi un giorno sono rimasto solo. Ho cercato mio cugino ma era partito per le terme, e mia sorella lo sapevo che non c’era. L’avevo vista andare via in bicicletta con una sua amica e nel cestino della bici avevano infilato qualcosa. Io mi ero steso sulle piastrelle fredde del corridoio a leggere un libro. Però avevo caldo, sudavo proprio; ed ero annoiato. Mia madre era in sala da pranzo, ascoltava una canzone dei Matia Bazar e mi diceva di non restare steso per terra. Sono uscito, giusto per fare qualcosa. E davanti alla finestra della sala e della cucina c’era una vasca di pietra scura e ricoperta di muschio. L’avevano riempita di acqua limpida e senza esitare mi misi a sedere sul bordo, immergendo le gambe fino al ginocchio. Tenevo le gambe a mollo per sentire il fresco, scalciando l’acqua al ritmo dei Matia Bazar.
Sentii spegnere la radio e accendere la tivù. Vedevo dietro la zanzariera la luce azzurra dello schermo e la sagoma scura di mia madre che si faceva le unghie.
“Che film danno?”, le domandai.
“Ossessione, di Visconti”
“E’ bello?”
“Sì, è bello, stai buonino...”
Allora salii in piedi sul bordo della vasca issandomi sul davanzale, sfondando quasi la zanzariera, e lì mi rannicchiai per più di due ore. Massimo Girotti in canottiera mi stava simpatico e quel film mi sembrava la cosa più bella che avessi mai visto. Non capivo tutto tutto, e continuavo a far domande a mia madre:
“Come si chiama lui?”
“Gino, lo sai pure...”
“Mamma, come si chiama il ciccione?”
“Bragana, fammi sentire il film adesso...”.
Finì quasi a sera, e non faceva più così caldo. Sul davanzale, insieme a me, era salito anche il gatto e, prima di scendere, lo scalciai di sotto.
Mi incamminai lungo un sentiero, verso il canale da cui mio nonno pompava l’acqua per riempire i fossati. Ero semplicemente felice. Volevo bene a mia madre, a mio nonno, mi piaceva camminare scalzo nella polvere. E da quel giorno amavo anche il cinema.

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p.s.
In mancanza d'altro ho riciclato questo...lo so che è troppo lirico, ma questo ho...

lunedì 18 febbraio 2008

Il mistero dei bambini nella pancia

Adesso devo scrivere un post sull’aborto perchè mi han detto di scriverlo e perchè voglio scriverlo, ma parlare di aborto è una cosa così difficile che mi fa sudare. Io, le mie più grandi esperienze le ho vissute quand’ero piccolo e una volta ch’ero in montagna c’era una donna che aveva già quattro figli, che almeno due erano miei amici, e stava per avere il quinto figlio. E a me quella cosa del quinto figlio, che stava chiuso in una pancia che aveva già ospitato quattro figli, mi pareva un mistero così grande che quando mi dicevano di toccare la pancia per sentire i calci io non la toccavo perchè mi faceva una paura misteriosa. E quel mistero della vita nella pancia, per come la intendo io, è una giurisdizione che spetta solo alle donne, che quella cosa poderosa della maternità solo loro possono sapere che cos’è. E se in un dato momento della loro vita vivono un dolore talmente grande e una sofferenza talmente grande da arrivare a dire che Questo bambino che ho nella pancia io adesso, in questo momento della mia vita, decido di non averlo...bene, se loro arrivano a dire questo, nessuno ci può mettere bocca, ma proprio nessuno. E quella gente che son uomini, e quella gente che son gente di chiesa devono parlare di altro e non di questo. Che loro saranno anche dei professionisti del mistero della fede ma per quanto riguarda il mistero dei bambini nella pancia e di quel legame ultraterreno che nasce tra una madre e un figlio, loro non possono riempirsi la bocca di ipocrisia. Che, fino a prova contraria, il mistero dei bambini nella pancia è piantato nella terra per quanto è reale, mentre il mistero contenuto nella professione di fede è più piantato nell’aria. E uno stato che sia uno stato e non la controfigura di uno stato deve difendere le proprie donne che sono la cosa più bella e misteriosa che ha. E così facendo difenderà anche i suoi bambini. E quindi 194 è un numero di civiltà e rispetto.
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